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RASSEGNA STAMPA WEB
come e dove Petra arriva in tavola
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Il cibo quotidiano. Quante mani per fare un pane!


Bread Religion, l’evento dedicato al grano ideato da Petra Molino Quaglia, è stato occasione per riflettere sulla ricchezza e varietà di pani esistenti nel nostro Paese e sulla loro salvaguardia

Il gesto di spezzare il pane e addentarlo è talmente primordiale che uno non si immagina quante mani e teste ci possano essere dietro a quel boccone. Eppure tecnica e pensiero sono fondamentali per dare forma a un pane fragrante e gustoso, che allo stesso tempo rispetti la salute dell’uomo e dell’ambiente. Anche per questo, il 10 giugno scorso si è tenuto Bread Religion, un momento di confronto che ogni anno Petra Molino Quaglia organizza in concomitanza con la mietitura del grano, rivolto sia ad addetti ai lavori che ad appassionati. Tema di questa nuova edizione «la salvaguardia della diversità non solo dei grani, ma anche dei pani italiani».

A fare da cornice all’evento la Masseria Mandrascate di Valguarnera Caropepe, una costruzione fortificata del Seicento secolo vicino a Enna, la provincia più alta d’Europa e quest’anno forse anche la più arida. Un luogo scelto non a caso, perché a pochi chilometri di distanza si trovano i campi di grano del custode dei semi Giuseppe Li Rosi, fondatore dell’associazione Simenza. Una realtà nata con l’obiettivo di tutelare e valorizzare il patrimonio dell’agrobiodiversità siciliana e che da sette anni collabora con il Molino Quaglia a un progetto di filiera circolare «per realizzare produzioni dall’elevato valore in termini di qualità nutrizionale, ambientale, sociale ed emotiva».

Da questo substrato nasce Petra Evolutiva, non solo una farina biologica, ma un approccio alla filiera che mette in connessione agricoltori, molino, artigiani e consumatori finali. Un’idea nata dall’incontro tra la famiglia di mugnai da quattro generazioni e il fondatore di Simenza.

Li Rosi già da qualche anno coltivava nella sua azienda, Terre Frumentarie, una popolazione di grano tenero chiamata Furat. A portargli i semi di questa popolazione evolutiva, figlia di un miscuglio di duemila varietà costituito in Siria, sono state altre due figure chiave di questo progetto e che da tempo si battono per riportare la biodiversità in campo attraverso la selezione naturale: il genetista Salvatore Ceccarelli, esperto in miglioramento genetico evolutivo e Stefania Grando, plant breeder con oltre trent’anni di esperienza.

Una delle caratteristiche intrinseche delle popolazioni evolutive è l’adattabilità alle condizioni territoriali e climatiche delle parcelle in cui vengono seminate. Per questo Li Rosi aveva puntato sul Furat: per far rinascere sementi locali più resistenti di quelle convenzionali da distribuire a una rete di agricoltori disposti a coltivarla in regime biologico. Così è nato il Furat Li Rosi. Con l’arrivo della famiglia Quaglia, che ha saputo valorizzare i cereali pagandoli un giusto prezzo e macinandoli con competenza, il cerchio si è chiuso.

O meglio, si è aperto a panificatori, pizzaioli, pasticceri ma anche a semplici amanti dell’arte bianca, attraverso l’iniziativa “Adotta un Raccolto”, coordinata dal responsabile ricerca e sviluppo Luca Giannino che spiega: «Lo stimolo verso un’agricoltura che ha a cuore la tutela della biodiversità passa attraverso le mani degli artigiani che trasformano la farina».

Per un artigiano adottare un raccolto significa (ri)conoscere il legame indissolubile tra il proprio fare e il lavoro nei campi, tra il seme e il prodotto finito. Ma anche avere a disposizione una farina «con caratteristiche sensoriali uniche, differenti da qualsiasi altro frumento», seppur non sempre facile da gestire. Per questo gli adottanti vengono accompagnati alla scoperta delle qualità tecniche della materia prima e prima ancora aggiornati lungo tutto l’iter di crescita e lavorazione del grano: dalla semina al raccolto, dalla molitura all’etichettatura. Ma soprattutto portati con i piedi nei campi, proprio come è successo durante Bread Religion.

Un progetto, quello di Petra Evolutiva, nato in Sicilia e che negli anni si è espanso, approdando nel Lazio, nelle Marche, in Puglia, in Toscana e da quest’anno anche in Piemonte. In questo modo dal miscuglio Furat di Li Rosi stanno nascendo popolazioni di grano tenero biologico diverse da regione a regione e da anno in anno. Una ricchezza che si moltiplica e che sta venendo mappata e raccontata attraverso la prima Carta dei Grani per annata agraria. Ad ogni parcella corrisponde una scheda con indicate le coordinate geografiche, l’anno del raccolto, le caratteristiche del terreno e le specifiche tecniche della farina che ne deriva. A riprova del fatto che anche il pane, esattamente come il vino, se concepito in un certo modo può avere un proprio terroir.

Un progetto parallelo all’attività principale del molino e sviluppato su piccola scala – le quantità non sono industriali – ma in continuo divenire e che si adatta alle circostanze e alle esigenze degli attori della filiera, proprio come una popolazione evolutiva. Un approccio riflessivo che prova anche a stimolare il pensiero rispetto al futuro prossimo di questo settore. «Stiamo orientando Petra Evolutiva alla ricerca non solo di sempre più siti di semina delle popolazioni Furat ed Evoldur (una seconda popolazione evolutiva di grano duro, ndr) formulando la Carta dei Grani, ma anche di tecniche di macinazione mono-raccolto dedicate e ad altissima sicurezza alimentare, per ottenere farine di popolazioni evolutive adatte alla lavorazione dei pani del patrimonio culturale italiano», ha raccontato durante l’evento Chiara Quaglia, amministratrice delegata dell’azienda di Vighizzolo D’Este (Padova) e co-ideatrice di Bread Religion.

Una questione posta ai partecipanti riguarda infatti il rischio di perdere la ricchezza rappresentata dalle innumerevoli varianti di pani regionali – in Italia ce ne sono oltre quattrocento, un caso unico al mondo – a fronte di una preferenza per i grandi formati.

Una risposta a questa preoccupazione è arrivata dal professor Danilo Gasparini, presidente del consiglio scientifico di Biblioteca La Vigna, tra i relatori del convegno: «Oggi il nostro rapporto con il pane si è evoluto. Se subito dopo l’unità d’Italia le persone mangiavano un chilo di pane al giorno, attualmente la media giornaliera è al massimo di settanta/ottanta grammi. Il pane è sempre stato qualcosa di aggregante, oggi invece ha perso il suo valore simbolico. Forse anche perché non è più l’alimento che serve a saziare la fame. Per questo servono dei pani speciali per ridare uno status al pane».

Ma non è solo questione di forma, lo ha ricordato nel suo intervento anche il professor Ceccarelli: «Il pane, per essere definito tale, dipende da quello con cui è fatto». La riscoperta dei pani regionali, per rispecchiare la biodiversità dei grani, dovrebbe passare attraverso un attento lavoro di ricerca, lo stesso che è stato fatto a suo tempo per i grandi formati: utilizzo di farina di qualità, tempi di lievitazione rispettosi della materia prima, studio e affinamento delle tecniche di lavorazione, riduzione se non azzeramento degli sprechi. Per tornare così ad avere un pane portatore non solo di un valore culturale ma anche in armonia con l’uomo e con la natura.


Laura Filios
fonte: https://www.linkiesta.it/2024/06/quante-mani-per-fare-un-pane/

Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)

 

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