«La rivista medica più importante al mondo ci dice che il cibo, attraverso il famoso microbiota, influenza il nostro cervello. È un pensiero rivoluzionario». L’entusiasmo e la passione con cui il professor Ceccarelli spiega i suoi studi è coinvolgente. Non puoi che starlo a sentire, non puoi che ascoltarlo e interessarti, per capire dove vuole andare a parare.
Vent’anni in Siria, poi in giro per India, Bhutan, Nepal e altre nazioni di quell’area, due anni in Francia e oggi in Italia, lui e la professoressa Grando, insieme anche nella vita, sono tra i biologi che più hanno studiato e indagato sull’evoluzione delle produzioni agricole, diventando a tutti gli effetti il papà e la mamma di quello che oggi chiamiamo “miscuglio evolutivo”, un insieme di semi che – a seconda di dove verranno piantati e come verranno coltivati – daranno vita a una selezione naturale, diversa per ciascun territorio e per ciascuna tipologia di coltivazione, che porterà nel tempo a rimettere il grano più congeniale alla zona dove viene piantato.
È una rivoluzione culturale, prima ancora che agricola: è il cambio di pensiero che sottolinea con altrettanta enfasi anche l’agricoltore che per primo ha creduto a questo progetto e ha piantato nei suoi campi al centro della Sicilia questa manciata di semi e oggi è un soddisfatto coltivatore di campi di grano tutti diversi, tutti competitivi, che danno chicchi come la natura vuole: «Chi sono io per combattere contro l’aria, l’acqua, il vento? La natura è più forte, non possiamo imbrigliarla. Lasciamo decidere a lei, c’era prima di noi e ci sarà dopo. Sa come fare» ci dice fiero Giuseppe Li Rosi, presidente di Simenza.
I suoi campi sono spettinati, pieni, densi, sembrano quasi spontanei, anche se così non è. Ma il grano che ne esce è più forte, resiste meglio al fenomeno dell’allettamento, non ha bisogno di trattamenti e cresce anche in condizioni idriche faticose. Perché a seconda dell’annata e del momento, si adatta spontaneamente e lascia vivere e propagarsi la varietà che in quel momento è la più adatta per sopravvivere.
Il passaggio culturale da fare è potente, ma se lo pensiamo per esempio sul mondo del vino, capiamo subito che è un passaggio necessario: è il concetto di “terroir” alla francese, non è semplicemente la terra, a determinare l’esito dell’uva nel bicchiere, ma è anche il luogo fisico dove questo avviene, le abitudini culturali e sociali delle popolazioni che lì vivono, le loro capacità agricole e le loro consuetudini a entrare in bottiglia, una volta che l’uva è diventata vino. Ed è esattamente la stessa cosa per il grano, e per i prodotti che ne deriveranno, che potranno essere fortemente territoriali, e fortemente identitari.
Certo, coltivandolo così, ogni anno il grano è diverso, e ogni anno bisogna far fronte a nuove sfide. Il pensiero comune, tra questi studiosi che mettono insieme scienza studiata e agricoltura praticata, è che nel tempo ci siamo piegati all’industrializzazione della natura perché le aziende avevano bisogno di un prodotto agricolo standard. Ci abbiamo creduto, ma abbiamo sbagliato. Perché a furia di standardizzare abbiamo denaturalizzato l’agricoltura. E il grano selezionato come migliore per tutti i terreni possibili, in realtà è quello che richiede più trattamenti: perché le industrie sementiere sono le stesse che guadagnano (molto di più!) dai trattamenti sistemici. Si fanno pagare un seme standard, che darà dei problemi, che si risolve comprando i loro prodotti chimici.
Oggi qualcuno sta provando a resistere a questa spirale negativa, e sta cercando di rimettere la natura al centro, e la sua capacità di autoregolarsi. È un lavoro lungo, che prevede un patto tra agricoltori, aziende di trasformazione e artigiani, che devono spartirsi il rischio per salvare raccolti e terre, ma soprattutto per costruire un futuro.
«In azienda la mia famiglia era fortemente critica verso questa strada: alla fine abbiamo dovuto costruire un Molino ad hoc per questo grano, che ha caratteristiche uniche e diverse di anno in anno. Serve recuperare artigianalità, sapienza, e serve che gli artigiani che poi lavoreranno la farina che ne deriva siano disposti a condividere il rischio di avere un prodotto sempre diverso, e a trovare il modo di lavorarlo al meglio».
A parlare è Chiara Quaglia, quarta generazione di mugnai, che insieme a Piero Gabrieli ha preso a cuore il progetto e lo condivide con alcuni dei suoi clienti più visionari.
Questi pasticceri, panificatori, pizzaioli adottano un raccolto, un ettaro ciascuno, e con la farina ricavano pani, pizze e dolci che raccontano una storia, un luogo e un modo di lavorare il terreno diverso. E che, a loro volta, oltre a prendersi il rischio di avere un grano da interpretare, devono trovare anche il modo di comunicare ai loro clienti il plus che ne deriva, per il prodotto che mangeranno ma anche per l’ambiente.
«Deve innanzitutto essere buono: non basta raccontare che viene da questi campi e con questi semi. Bisogna farlo bene, e interpretare la farina nella maniera adatta, ogni volta diversa. Ma ne vale la pena, e se è buono, e in più racconta questa storia di sostenibilità autentica, le persone lo apprezzano, lo capiscono e lo scelgono» spiega Pina Toscani, ex avvocato ora devota alla lievitazione, nei suoi locali di Mestre, uno appena premiato con i tre pani del Gambero Rosso.
La filiera è controllata, non per dire ma davvero, e il rischio è condiviso: gli agricoltori hanno terreni più sani e più solidi, e non sono in balia della prima pioggia che trascina con sé terre sterili. Le aziende possono fare un lavoro migliore e usare la loro competenza per trasformare al meglio un prodotto che non sfinisce la terra. E gli artigiani possono rimettersi in gioco con la loro maestria, riscoprendo il piacere di determinare con il loro lavoro il risultato finale. I clienti, a loro volta, possono scegliere da che parte stare: perché anche comprando il pane per la cena possiamo cambiare il mondo, una spiga alla volta.
Anna Prandoni
fonte: https://www.linkiesta.it/2023/06/seme-salvera-mondo-miscuglio-evolutivo-petra-quaglia/
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