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DA CASERTA A MILANO PER PASSIONE

C’è una grande connessione tra il mondo dell’arte, dell’artigianato e della creatività con quello della pizza. Lo possiamo scorgere nelle tecniche di preparazione, nei processi di lavorazione e di gestione delle squadre che lavorano in cucina...

A volte, lo possiamo intravedere anche tra le pieghe delle storie degli stessi pizzaioli. Giorgio Caruso era un artigiano, un artista. Lavorava in una fonderia a Napoli, dove trasformava le idee di altri in concretezza e contemporaneamente metteva sostanza alla sua creatività.

L’arte, purtroppo come tante cose belle nella vita, non sempre ti permette di pagare le bollette a fine mese e Giorgio decide per questo di raggiungere alcuni amici che da Caserta si erano, negli anni, trasferiti nella cosmopolita Milano, piena di infinite possibilità e portatrice sana di realizzazione di sogni. Giorgio Caruso quella creatività innata non l’ha messa da parte, ma l’ha fatta fruttare nel mondo della pizzeria, aprendo, in poco tempo, una tra le catene più interessanti e vive nel capoluogo lombardo. Lievità, infatti, ha visto una sua prima sede una decina di anni fa e ora sono cinque i locali gestiti da Caruso e soci.

«Prima facevo un lavoro molto manuale. La fusione, i calchi, le forme, le temperature elevate»: sembra stia parlando di pizza e invece si riferisce alla scultura. Anche la passione è la stessa: «Avevo venticinque, ventisei anni, quando ho iniziato e un amore incondizionato verso la pizza, senza avere nessuno in famiglia che ha mai fatto ristorazione. Sono l’unico, ma in realtà sono cresciuto mangiando pizza tutti i giorni». Giorgio si è rimboccato le maniche, ha studiato e si è messo in gioco, con una puntata che potremmo, col senno di poi, definire sicuramente una buona mano.

Oggi le persone coinvolte in Lievità sono una sessantina e l’obiettivo è rimasto sempre lo stesso: portare nelle tavole milanesi una pizza in stile napoletano, che abbia come caratteristica principale quella di essere leggera sopra ogni cosa. Non si tratta di una napoletana in senso stretto, da disciplinare: le farine utilizzate sono integrali e macinate a pietra e il cornicione non è così imponente come ci si aspetta. Gli impasti non seguono un retaggio culturale, ma sono guidati dalle scelte fatte, che vogliono portare le pizze di Lievità verso una nuova identità culturale, personalissima e distinta dalle altre.

Per il resto Giorgio ha deciso di puntare tutto sulla leggerezza, la digeribilità e i prodotti. Soprattutto quando si tratta di semplicità.

Nelle varie sedi di Lievità c’è infatti la Margherita declinata in diverse varianti, dettaglio che ai clienti piace molto e che trova nella combinazione di differenti tipologie di pomodoro e formaggi un nuovo modo di interpretare la tradizione. C’è anche la vegana, tra le varie Margherita: «È una scelta che abbiamo fatto anche per essere più trasversali, perché con la mozzarella a base di latte di mandorla riusciamo ad accontentare sia chi segue un’alimentazione priva di prodotti di origine animale, ma a anche chi vive con l’intolleranza al lattosio».

Qui da Lievità le proposte basate sul vegetale sono tante. Sicuramente in questo entra in gioco un aspetto culturale importante del nostro Paese, che in qualche modo è sempre stato incentrato sull’agricoltura e sul consumo alimentare agricolo e che ora sta riscoprendo questo suo lato, sia in cucina che in pizzeria.

«Forse ci sarebbe bisogno di maggior sensibilizzazione sul mondo pizza, e non solo». Giorgio Caruso riflette su quello che è lo stato dell’arte dell’offerta gastronomica in generale in Italia. Una situazione che trae, purtroppo, troppa ispirazione dal mondo dei social, dove il senso della vista è tutto e ci si nutre, anzi ci si abbuffa, prima con gli occhi e poi con tutto il resto, senza dare una vera sostanza al cibo, che rimane spesso per essere ancorato a una narrazione sbagliata e distorta.

«Dieci anni fa, quando ho aperto a Milano, c’era più cultura, più informazione, le persone erano più interessate a quello che dicevi. Oggi invece i social sono esplosi, spesso con le loro pagliacciate e questo è corrisposto anche con l’interesse genuino e intelligente verso il cibo delle generazioni più giovani».

Un ritornello che ritorna spesso: bisogna cambiare il racconto, partendo da chi produce il cibo, fino ad arrivare a chi lo trasforma, passando anche per chi lo comunica. E questo diventa un tassello fondamentale anche quando si tratta di una cosa così semplice come un impasto di farina e acqua, condito con mozzarella e pomodoro, in una narrazione che lascia da parte i fronzoli per catturare la vera materia.

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Redazione Linkiesta Gastronomika
fonte:
https://g2i7i.emailsp.com/f/rnl.aspx/?lek=t31ow/4c0lk=v2&x=pv&l-=xwr12-d2bc=&x=pv&cak7806b7&f3&x=pp&y1e.3-ih60m2b0e=2w3xwNCLM

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