Progetto volto a sostenere un’associazione quale La Miglior Vita Possibile: presieduta dal professor Giuseppe Zaccaria (già magnifico rettore dell’università patavina e luminare del diritto) e nata per supportare con iniziative e idee innovative l’operato dell’Hospice Pediatrico di Padova. Un centro all’avanguardia, una colonna portante per tutto il Triveneto in quanto a cure palliative e terapie del dolore in età pediatrica.
Ed è proprio all’attivissima associazione che è andato tutto il ricavato delle donazioni fatte: per aggiudicarsi cento prelibatezze realizzate in limited edition. Tutte da un chilo, tutte numerate, tutte messe all’asta e tutte messe a segno coralmente e collettivamente dal gruppo di pasticceri e tecnici. Partendo da un lievito madre vivo, nutrito dalla farina Petra 6384. Che è andata pure a completare un impasto prezioso di tuorli, zucchero, burro, vaniglia, uvette e scorze d’arancia candite del Caffè Sicilia. Panettoni fatti a mano, confezionati a mano e orgogliosi di creare un girotondo, mano nella mano. Grazie agli allegri packaging realizzati dal designer spezzino Emanuele Martera.
«Ho optato per la semplicità, ragionando su quali segni usare per cercare di comunicare la forza delle idee e amplificare il concetto di artigianalità. Così ho deciso di vestire ogni panettone con un sacco di farina dipinto a mano, uno a uno. Affinché diventasse un pezzo unico. Un pack disegnato da un lato e dall’altro. Ritraendo in maniera stilizzata un bambino e una bambina. Che, messi uno accanto all’altro, pare che si diano la mano. Che si abbraccino. Del resto, è la parola insieme la chiave del progetto. Dobbiamo imparare a mettere da parte egoismi e individualismi per collaborare, uniti. Poi ho voluto usare tanti colori, per meglio trasferire lo spirito allegro, conviviale e gioviale che si è respirato nei tre giorni», spiega Martera. Autore anche del logo dell’iniziativa.
Panettone solidale. E digitale.
Certo, il panettone è social. Non solo perché da tagliare e condividere. Ma pure perché fiero di divenir oggetto e soggetto di immagini, video e post su Instagram e Facebook. Per raccontarsi e raccontare la lunga filiera che lo va ad alimentare. Entrando così a far parte del linguaggio dei millennial, di un contesto “normale”, di una dimensione domestica e di una consuetudine familiare. Come? Semplice.
«Il modo migliore per comunicare un dolce è l’immedesimazione. Più che la descrizione dei suoi ingredienti serve il racconto evocativo. Noi, a differenza dei cuochi, abbiamo poco tempo per fissare un prodotto nella memoria del cliente. E dobbiamo farlo narrando», precisa Massimo Alverà.
«Ovvio, il design è importante. Un dolce si mangia prima con gli occhi. Ma gusto, freschezza e materie prime devono racchiudere un concetto fondamentale: l’artigianalità. Ecco, la mia idea è quella di proporre sempre dolci capaci di ricordare quelli fatti in casa. Dalla mamma, dalla nonna. Dolci che a livello emotivo possano riportare all’infanzia», aggiunge Mariano Massara. Precisando una regola che ben si applica anche al grande e piccolo lievitato.
Cristina Vigge
fonte: https://www.identitagolose.it/ermes/newsletter/?id=441
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