“Pensare che con la ristorazione non avevamo nulla a che fare. Mio padre è un ingegnere che spadellava per diletto a casa. Mentre io ho studiato economia”, spiega Serena, figlia di Roberto Babbo. O meglio, per tutti è Roberto, ma lui si chiama Wladimiro: un avezzanese doc, tenace e audace, che nel 2007 acquista una palazzina di ringhiera con facciata Liberty in zona Ripamonti, a Milano. Decidendo di trasformarla in uno spazio dedicato alla più autentica enogastronomia abruzzese. Mettendoci passione, convinzione e una buona dose di coraggio. Al punto da finire lui stesso in cucina. Con eccellenti risultati. Visto che Il Capestrano è persino citato nella Guida Michelin 2019.
I motivi? Tanti. L’ambiente in primis. Raffinato e ruvido. Come l’Abruzzo. Nutrito di mattoni a vista e di eleganti tovaglie, di griglie ardenti e di atmosfere pacate, di salotti e di un profondo senso rurale. Di un sopra e di un sotto, che molto somiglia a un’intima cantina. Di quattro sale, ciascuna intitolata una provincia della regione (al pari della wine list):
L’Aquila, giusto all’ingresso, con le vetrate dirette sulla strada; Pescara, più riservata e raccolta, con corredo di braci e caminetto; mentre al piano inferiore si dipanano Teramo e Chieti.
La prima arredata con tutto l’occorrente per far la pasta: dal mobile dai mille cassetti e col ripiano in marmo, sino al setaccio e alla chitarra per fare i “maccheroni” (e non manca lo stampo per le ferratelle). La seconda vocata alle tavole imperiali. Modello panarda, banchetto faraonico e pantagruelico in uso nel tempo chef fu.
Ma senza scomodare la panarda, il cibo qui convince, eccome. Autentico e attualissimo. Tradizionale e contemporaneo. Perché alleggerito ma non stravolto nei suoi valori, legati alla più genuina tipicità. I capisaldi regionali ci sono e la carta non vira mai verso inutili sollazzi. “Qui le sagne c’ji fasciòli me le chiedono anche in estate”, dice Roberto. E lui le tagliatelle in zuppa con fagioli e peperoncino la prepara. Insieme alle pallotte cacio e ova (pallottine di pane raffermo con uovo, formaggi di mucca e pecora e salsa di pomodoro), e alle pizz’ e foje (verdurine di campo ripassate con aglio rosso di Sulmona e peperone dolce di Altino, su crema di fave e croccante al mais).
Non dimenticando i cazzellitt’ de’ Scanno c’le foje (gnocchetti di acqua e farina saltati con cime di rapa, alici e peperoncino); la trippa alla pennese; la zuppa di lenticchie di Santo Stefano di Sessanio; l’agnello igp del Parco della Maiella arrosto e le salsicce di fegato di maiale con la cicoria croccante.
“Ma ci concentriamo molto anche su salumi e formaggi di alta qualità. Preferendo quelli di piccoli produttori, che non cedono mai a compromessi”, precisa Babbo. E Serena puntualizza: “Spesso, la sera, dopo il servizio, io e papà facciamo un picnic. Ci sediamo in tutta calma, sperimentiamo e assaggiamo nuovi prodotti artigianali”.
Il fine? Valorizzare la materia prima e l’intera filiera agricola abruzzese. Non trascurando innumerevoli Presìdi Slow Food. Una cura e un’attenzione che hanno permesso al Capestrano di entrare a far parte dell’Alleanza Slow Food dei Cuochi. Nel nome della salvaguardia della biodiversità e di lavorazioni rispettose dell’uomo e della terra.
Formaggi e salumi col nome e cognome, insomma. Come quelli protagonisti di una serata di degustazione-narrazione firmata e organizzata da MásWine, lab di comunicazione esperienziale guidato dalla giornalista e sommelier Jenny Viant Gómez: nata a L’Avana, residente in Abruzzo da ben 23 anni e delegata regionale dell’associazione nazionale Le Donne del Vino. Un bel traguardo. Raggiunto grazie a un’infinita conoscenza della terra che l’ha accolta.
“Mi piace raccontare. Perché conoscere quello che si mangia e si beve è fondamentale”, afferma coerentemente Jenny. Che, per il primo appuntamento del format, ha proposto tre vini bio. Di tre cantine. Con tre anime diverse. Ma tutte dalla spiccata identità.
E come non cominciare da un fuoriclasse? Voilà “Integro” (vendemmia 2018), un ancestrale modernissimo. Uno chardonnay purissimo, frizzante e imbottigliato con i suoi stessi lieviti. Un vitigno internazionale che ben esprime il suo sentirsi a casa anche nel più selvaggio Abruzzo. Un vino che molto somiglia a una birra. Una weiss se proprio si vuol essere precisi. Un’etichetta da bere sia limpida - non scuotendo la bottiglia - sia torbida, muovendola un po’. A produrlo? Chiusa Grande, l'azienda di Franco D’Eusanio, che in quel di Nocciano (Pescara) s’inchina alla vinosophia. Realizzando vini che emozionano. Come questo: esuberante, solare, abissale.
In abbinata? Salumi d’autore. A cominciare dal prosciutto crudo tagliato al coltello (e stagionato naturalmente per 16 mesi) e il salsicciotto con peperone dolce di Altino firmati dall’azienda teatina I Salumi della Maiella. Per proseguire col salame di Paganica degli aquilani fratelli De Paulis, la lonza di filetto di maiale pesante della teramana Salumeria del Parco e la ventricina del Vastese by Fattorie del Tratturo di Scerni. Anzi loro, i fratelli Luigi e Antonio Di Lello, sono i fondatori dell'Accademia della Vetricina. Quella a grana grossa, da affettare e non da spalmare. Che vanta persino un festival, di scena (per la ventesima edizione) proprio a Scerni (in piazza De Riseis) il 13 e il 14 luglio.
Per passare ai formaggi: pecorino canestrato di Castel del Monte, Presidio Slow Food targato Giulio Petronio, con confettura di cipolle rosse; marcetto (sempre di Petronio) in tandem con il mostocotto di Praesidium, ottenuto facendo bollire - a fiamma moderata per 12-16 ore - il mosto fiore, proveniente da uve Montepulciano; nonché la ricotta scorza nera di Gregorio Rotolo, che in quel di Scanno crea mirabilia casearie. Il tutto accompagnato da pane fatto in casa (con Petra 1 e Petra 9 di Molino Quaglia) e pane di Avezzano. Segni particolari: l’impasto prevede le patate del Fucino. Dalla forma tonda-ovale e dalla buccia irregolare. Coltivate in una grande area, vicina al Parco Nazionale d’Abruzzo e al Parco Naturale Regionale Sirente Velino.
Bisogna invece spostarsi in provincia di Chieti per scoprire l’azienda agraria Rabottini. Alla cui regia stanno il patron agronomo Massimo e Isabella Iezzi. Nel calice? “Per Iniziare” (sì perché la produzione è una consecutio temporum che inanella “A Salire, “Ed in Fine” e “Per Concludere”, includendo pure l’extravergine monocultivar FS 17 “Per Condire”). Un Trebbiano d’Abruzzo di nerbo, brillante e seducente. Un tipo deciso, sapido e dirompente. Intenso e agreste, ma al contempo elegante ed equilibrato. Un trebbiano fuori dal coro. Che non nasconde la sua potenzialità d’invecchiamento.
Con lui? Gli spaghetti alla chitarra homemade con zucchine, guanciale e zafferano di Navelli. Un piatto yellow e raggiante, come il vino. E perfettamente in accordo col vino. Anche se in carta le chitarrine si esibiscono fra ragù di castrato e scaglie di pecorino di Castel del Monte.
A questo punto si fa largo lui: il Montepulciano d’Abruzzo di Cantina Wilma, azienda a conduzione familiare, targata dall’imprenditore Maurizio Nonno. Un Montepulciano forte e gentile, caldo e sapido. Più setoso nell’annata 2011, più scalpitante, ma non graffiante, nella 2017. Un’etichetta magistrale, facente parte della linea "Il Vino di Donna Tethi", in omaggio alla madre di Achille. Che la leggenda vuole aver fondato la città di Chieti. Ettari totali? Otto: due vitati; tre olivati; due dedicati al carciofo mazzaferrata e il restante lasciato al bosco.
A sposare il nobile rosso, gli arrosticini.
“Noi li facciamo ancora come una volta. Lavorando direttamente la carne e lasciandola frollare per 4-5 giorni. Usiamo la lombata e la coscia della pecora. E poi cuociano il tutto sulle braci a carbone. Girando gli arrosticini per circa quattro volte, per otto-nove minuti. Sempre a calore forte, così da creare una bella crosticina. Poi li mettiamo a testa in giù nelle brocche di terracotta, rimaste vicino alla griglia. Anzi, gli arrosticini si dovrebbero mangiare vicino alla griglia”, puntualizza il saggio Babbo. Che per la pecora nutre una vera passione.
“La propongo anche in tartare. Utilizzando il filetto. Ho persino provato ad arricchirla con un’ostrica sarda”, continua il patron. Che non dimentica lo stracotto di pecora in bianco. “In questo caso prediligo il collo, la spalla e le parti terminali della cosce. Sposando cotture lentissime”.
A chiosa, sorbetto al limone e ratafià. Un cult, figlio di visciole e amarene. Rubino elisir dall’anima succosa, un tempo sorseggiato al termine di un atto notarile, pronunciando “ut rata fiat”: sia ratificato l’atto steso. Oggi, ideale per suggellare un pasto. In alternativa? Il dannunziano parrozzo oppure la pizza doce, con pan di spagna, cioccolato crema e alrchermes.
Da sapere. Intorno alla corte de Il Capestrano si srotola La Maison: loft, monolocali e appartamenti temporary home. Mentre in viale Sabotino 14 si rivela La Bottega del Capestrano. Una vera e propria osteria tipica abruzzese, spin-off un più smart del ristorante “padre”. Ma sempre griffato Babbo.
Cristina Viggè
fonte: http://www.fuorimagazine.it/blog/shooting/?permalink=il-capestrano-essenza-abruzzese
Leggi il testo integrale nel link FONTE (qui sopra)
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